26 maggio 2011

L'Altro è un kleenex - usalo e poi gettalo

Non ho mai creduto al reciproco sfruttamento.
O meglio, al suo essere realmente fruttifero nel lungo periodo.

So che la vita (come ciclo di nascita, vita e morte) è basata sulla disuguaglianza.
Pensando a questo concetto, me lo sono sempre immaginato come il principio fisico dal quale nasce il vento: correnti di aria fredda che spingono correnti di aria calda che si raffreddano, poi si scaldano di nuovo, dando vita a un ciclo continuo, generando movimento.

Di fatto, in natura, la disuguaglianza genera vita.
E so di non aver scoperto l'acqua calda, so che prima di me persone di ben altro calibro hanno filosofato sul tema, a cominciare da Eraclito, per esempio.

In ogni caso, quello su cui volevo concentrarmi, è che in certa misura la disuguaglianza è indispensabile, non è né utile né auspicabile l'omologazione. Anche i biologi lo sanno bene: è la diversificazione che permette l'evoluzione.

Ma a tutto c'è un limite.

Lo sfruttamento fa parte di quella logica capitalistica che ha dimostrato e continua a dimostrare i propri limiti, la propria fallibilità e la propria inadeguatezza. Sfruttare fornisce dei benefici nell'immediato, ma non è un'azione ecologicamente sensata.

Si parte dallo sfruttare le persone che ci stanno a fianco, prendendo quello di cui abbiamo bisogno, sia materialmente che simbolicamente, approfittiamo della bontà e della disponibilità, individuandole come debolezze e come comportamenti sciocchi, piuttosto che come ricchezze e risorse per la società nel suo complesso. Seguiamo poi sfruttando l'ambiente nel quale viviamo, autoconvincendoci dell'inesauribilità delle risorse che usiamo. E terminiamo vivendo secondo un modello biologicamente, ecologicamente, umanamente ed emozionalmente insostenibile.

Molto si sta scrivendo e dicendo riguardo alla sostenibilità dell'attività umana e dei nostri stili di vita, ma non mi risulta che nessuno si sia preso la briga di registrare il fatto che nemmeno il tipo di relazioni che abbiamo imparato a considerare come "normali" (se vogliamo usare un termine che non mi piace per niente, ma che non riesco a sostituire con un altro, senza ingarbugliare il discorso), sono sostenibili.

Sfruttare il prossimo, prendere finché ce n'è e finché si può, fino a inaridire l'altro, a lasciarlo sterile come un campo seminato e arato troppe volte, soddisfa le proprie rapaci necessità nell'immediato, ma ha l'inconveniente di annientare la fonte di soddisfazione dei bisogni/necessità medesima. Perciò, anche con gli altri esseri umani, facciamo quello che abbiamo fatto per anni come specie: succhiare il midollo delle cose fino a non lasciare più nulla, per poi spostarsi altrove, verso lidi più favorevoli, verso nuove terre vergini da spolpare.

Non credo che la definizione di virus sia molto lontana dall'identificare ciò che siamo.

Nonostante l'imbarazzante e dolorosa realtà delle cose, continuo a credere in una certa superiorità non tanto del cervello umano, quanto della volontà che ciascuno di noi può esercitare sulle proprie azioni, autobbligandosi a compiere certe scelte e certe azioni piuttosto che altre.

Certo, la maggior parte delle persone mi risponde con una serie di "ma", il più assurdo dei quali è "ma alla fine l'essere umano è questo" o anche "l'essere umano ha istinti animali ai quali non è possibile sottrarsi".
E di solito sono gli stessi strani figuri che sbandierano la (presunta) superiorità dell'essere umano su tutti gli altri viventi, in quanto dotato di intelligenza e di coscienza.
Tutto ciò mi sembra per lo meno incoerente: punto primo, l'essere umano non è innato, l'essere umano, postulando che sia DAVVERO un essere dotato di coscienza e intelligenza, può essere QUASI tutto ciò che vuole, o per lo meno, esercitare la propria capacità di discernere, fatto che vincola indissolubilmente l'operato di ciascuno di noi al concetto tanto ignorato (non tanto in teoria, quanto nella pratica) di responsabilità.
È una parola, questa, che andrebbe tatuata in fronte (metaforicamente parlando) ad ogni nuovo essere umano che si affaccia alla vita.
Dovrebbe essere una parola talmente radicata e interiorizzata dentro di noi, da non poter essere nemmeno distinta dal resto del nostro essere più intimo, dalla nostra essenza più vera.
Attenzione a non confondere le carte in tavola e a mettere in relazione il concetto di responsabilità con quello che una certa cultura cattolico-clericale ci ha abituato a pensare come naturale conseguenza, o sia quello di colpa: lungi da me e dal significato con il quale intendo esporre questa mia idea.
La responsabilità ha tutta un'altra valenza, affonda le radici in quella che è terra fertile per qualunque essere umano: l'amore e il rispetto.
Dall'amore e dal rispetto per noi stessi, per l'Altro, per l'ambiente nel quale viviamo, per le altre forme di vita con i quali lo condividiamo, ecc…
Il concetto di responsabilità è ancora più affascinante e profondo, se pensiamo che è legato a doppio filo con la nostra libertà di scelta: in certo grado, siamo liberi di scegliere una strada piuttosto che un'altra, o una persona, una maniera di comportarsi, ecc... Se pretendo che si rispetti la mia sacrosanta libertà di scelta, non posso poi sottrarmi alle responsabilità che questa comporta, o ai danni prodotti da una mia azione liberamente intrapresa. Non posso perché vado a interferire con l'altrui libertà e perché ogni diritto comporta anche un dovere (o più).
Per essere davvero liberi, non c'è altra via che quella di essere anche assolutamente responsabili. La responsabilità ci renderà liberi, perché se ce ne assumiamo il peso, nessuno potrà più attaccarci in maniera giustificata e non dovremmo più vivere con lo spettro della fuga e della sottrazione.

Punto secondo, se l'essere umano fosse davvero un essere superiore agli altri viventi, riuscirebbe per lo meno a fare quello che questi ultimi riescono a fare con il semplice istinto: vivere in equilibrio e armonia con il mondo che lo circonda e senza consumare più del necessario, senza razziare, senza uccidere o torturare per il gusto di farlo. Tutte queste azioni, non apportano nessun avanzamento a livello di specie, perciò, concretamente parlando, sono azioni non solo inutili, ma dannose.

Il riferimento all'istinto, ci porta direttamente al terzo punto: chi sostiene che alcune delle azioni negative dell'essere umano siano riconducibili a un "istinto animale" difficilmente controllabile, spesso sono in malafede e usano quest'argomentazione solo per sfuggire, per l'appunto, alle proprie responsabilità. L'istinto animale non giustifica il 90% delle azioni negative che associamo ad esso, poiché quest'ultime si rivelano irrazionali per il benessere della nostra specie (approfitto per ricordare che "istintuale" non è sinonimo di "irrazionale", come ci siamo abituati a dire), quindi vanno anche contro l'istinto animale stesso. Inoltre, se assumiamo che l'essere umano, rispetto agli altri animali, è anche un soggetto intelligente, cosciente e pensante, non possiamo poi nasconderci dietro il paravento dell'istinto. Se il cervello umano, se la sua volontà, hanno un qualche potere, non ci si può poi sottrarre alle responsabilità che questo potere comporta.

Sfruttare non solo è controproducente e dannoso, è anche triste: sfruttano solo coloro che non sono capaci di generare, di dare la vita.

E voi, sarete tra coloro che sanno/vogliono/riescono a creare, a generare e a dare o vi limiterete ad essere tra coloro che non fanno altro che prendere e distruggere, come i parassiti?

Voi, cosa-chi-come volete essere?

Nessun commento: